STORIA DI UNA SPERADA

In Savoia, area geografica vicino al Piemonte, l’atto di recarsi ad acquistare il corredo di gioielli per la ragazza in procinto di sposarsi era detto “ferrer l’épuose”, mentre i gioielli venivano  chiamati “le ferrement des femmes”, “la ferrare”, “les dours”,” les ors”. Nell’area valdostana l’espressione “ferré la poillèina” significa metaforicamente sposare una ragazza. La parola ferrare viene così a intendersi come sinonimo di sposare. Anche alcune valli trentine come la Valsugana e la Val di Fiemme utilizzano espressioni quali “‘nferar la sposa” e “‘ndorar la sposa”.

Questa pratica è stata interpretata in ambito antropologico come un rito simbolico di appropriazione della sposa da parte del futuro marito, attraverso la consuetudine di dotarla di altri gioielli, simboli rappresentativi del legame che si sta venendo a creare e consequenzialmente dell’assoggettamento femminile all’uomo nella ripartizione dei ruoli sociali. Si viene così ad instaurare una relazione diretta tra l’atto di “ferrare la sposa” e quella di dotarla di ornamenti metallici. Ad avvalorare questa tesi si deve considerare la stretta relazione esistente in passato tra i mestieri di orafo, gioielliere, fabbro e maniscalco: questa tradizione ha radici molto antiche nei miti della metallurgia di tutti i popoli e si ritrova molto spesso anche nelle leggende e nei racconti tradizionali.

Un’espressione linguistica usata in alcune regioni scandinave e della Germania settentrionale mostrava un accostamento diretto tra il cavallo che sta per essere ferrato e l’uomo in procinto di sposarsi: il cavallo quando viene ferrato non è più libero, così come l’uomo con il rito del matrimonio si lega stabilendo un vincolo.

In questo contesto può essere ben collocata la speràda “argenti da testa o raggiera”, contrazione del lecchese sperunàda, che richiamandosi alla metafora dello sperone, risulta concettualmente tangenziale alla ferratura del cavallo, e soprattutto a les dours. Ecco perché la speràda, che ben si può ascrivere agli status symbol ante-litteram e che trovava ragion d’essere nel complesso del costume popolare, può diventare la storia della vita di una donna.

La speràda, infatti, non era soltanto un’acconciatura ma aveva un valore sociale importante e preciso. La tradizione vuole che quando la ragazza poteva non portare più le trecce sulle spalle ma le avvoltolava intorno allo spontone, regalatole dai genitori, diventasse una “ragazza da marito”. Da qui in poi ci sono state tramandate varie ricostruzioni del modo in cui una ragazza riuscisse a comporre la sua personale speràda, una di queste è quella che il futuro fidanzato le avrebbe regalato le spadine e da quel momento sarebbe diventata una “promessa sposa”. Durante gli anni del matrimonio e all’arrivo dei figli, il marito avrebbe continuato a regalarle i cucchiaini, fino a un numero complessivo anche di 45/ 47 spadine e cucchiaini, per circa mezzo chilo d’argento sulla testa. La speràda diventava così un modo per far capire la condizione della donna: da sposare, promessa sposa, sposata, sposata con figli.

La speràda è senz’altro un oggetto costoso che tende a mostrare esteriormente che il possessore ha raggiunto un determinato status sociale o un livello di ricchezza personale o di potere. Di affermazione per una donna, che la faceva distinguere e omologarsi, facendosi accettare dallo strato sociale a cui apparteneva o nel quale desiderava inserirsi. Uno status symbol.

Avere uno status symbol semplifica le cose, non bisogna far fatica a presentarsi, non c’è bisogno di far conoscere se stessi attraverso il comportamento, attraverso discorsi, appuntamenti, uscite; basta farsi vedere un po’ in giro, oppure spargere la voce e ci si è presentati in un batter d’occhio. Avere uno status symbol mostra la nostra corazza, la parte esterna che serve per far vedere ciò che vorremmo. Gli status symbol sono subdolamente utili perché ci fanno competere, ci invogliano a fare progetti, puntare su obiettivi ben precisi, per esempio risparmiare per una bella speràda (un tempo) o per una bella borsa (oggi).

La speràda però, al contrario di quanto accade oggi, non aveva vita autonoma, non era oggetto-feticcio, ma faceva parte di un sistema di valori integrato che era culturalmente condiviso. Il valore della figura femminile non era dato, ad esempio, dalla sola acconciatura, ma dal sistema di rapporti che questa configurava, sia da un punto di vista visivo, sia da un punto di vista ideologico e simbolico, nell’insieme del costume. L’armonia dell’insieme prevedeva, ad esempio, la camìsa, i söpei (le scarpe fini) e lo scosàl (il grembiule ricamato), e la stessa speràda non sarebbe stata adeguatamente apprezzata senza i fazzoletti da gesa che connotavano (e rendevano riconoscibile) la donna vista da dietro, nella forma di una raggiera (la speràda) aggettante un cerchio (la testa), poggiato sull’ipotenusa di un triangolo isoscele a punta in giù (il fazzoletto da spalla della festa).

Un simbolo per il suo tempo, il cui alone poetico e sentimentale permane ancora oggi in quest’oggetto d’altri tempi che ben ci è raccontato dalle immagini di Giulia Caminada: la cronaca per immagini della costruzione di una speràda, ripercorrendo la storia di una speràda nata dalle mani di un sapiente argentiere comasco, più di trent’anni fa. Quello di Giulia è il tentativo di trovare le parole giuste e le immagini adatte per raccontare la costruzione dell’ornamento in tempo reale, senza banalizzazioni, come potenzialmente poteva essere stato ai tempi nei quali la speràda era in uso.

A confermare che non ci sono al mondo solo immagini di immagini, interpretazioni di interpretazioni ma che da qualche parte ci sono occhi che tentano, con sempre maggior difficoltà, di immettere nel circuito della conoscenza nuove fonti dirette, nuove testimonianze primarie proprio laddove le testimonianze sono perse e le fonti sono mancanti. Infatti, le ultime speràde sono state in uso fino ai primi del novecento e la rappresentazione iconografica più antica dell’ornamento risale ai primi dell’ottocento benché il Manzoni, con i suoi Promessi Sposi, la dica in uso nella società lombarda del seicento. Perché la fotografia è ben più di una tecnica o di un’arte (o di una tecnica d’arte), è un metodo antropologico. Questo sembrano volerci dire le trentasei immagini di Storia di una speràda a cui rimandiamo vivamente il lettore di queste righe.

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