DENTRO LE CASE

 

Una casa è un punto di partenza e un punto di arrivo. È un porto di mare. Si va per ritornare. Ma una casa ci vuole. Perché  una casa ci aspetta e dove abbiamo la casa, là abbiamo il cuore. La casa contiene, circoscrive, cova, trattiene. Dentro c’è ciò che conta. Uomini e cose.

Di fatto, i muri divengono il contenitore attraverso cui i personaggi si rivelano. Dove comincia tutto e tutto è parte di noi. Come in un «Grande Fratello» le cose di tutti i giorni – presenze mute e silenziose, tracce preziose di un tempo scivolato via, cambiato in fretta – si raccontano.

Dentro le case è un reportage fotografico che racconta gli uomini e le cose. Attraverso una sequenza di immagini in bianco e nero sfila davanti a noi quello che è e che non è più.

Prendono nuova vita oggetti di uso domestico della tradizione popolare contadina che ai giorni nostri hanno ormai esaurito la loro funzione d’uso. Dimenticati in soffitte o cantine, riposti in qualche cassetto della casa, o come soprammobili decorativi delle abitazioni di Barni, in Vallassina, gli oggetti delle immagini di Dentro le case, con la loro varietà, sono il tentativo di fare un ritratto della memoria individuale e collettiva. Quella di Giulia Caminada e quella del paese di Barni. Gli oggetti diventano proiettori del cuore, estensioni della memoria. Sono quello che resta.

Dentro le case è una serie di immagini dalla presenza discreta, riscontrabile oltre che nella ripresa dell’evento anche nell’immagine che, pur essendo in bianco e nero, mantiene toni naturali, non esasperati. Discrezione funzionale a catapultare nella realtà viva, non condizionata dall’incombenza evidente del mezzo di riproduzione.

Privilegiano l’approccio documentario. Ma non una documentazione analitica, bensì una percezione più umana che meccanica. Più che fotografie sono porzioni di tempo e spazio vissuti dall’autrice e memorizzati dalla macchina fotografica quasi a ricostruirne una memoria. Il loro valore è quindi più concettuale che formale perché la realtà si consuma nella sua stessa esistenza e non può essere ridotta a “cosa”.

Qualsiasi sia il suo oggetto, la fotografia di Giulia Caminada è sempre curiosa, indagatrice, esploratrice, mai scontata. È una fotografia che possiede ancora lo stupore dell’immagine e che sa rivelarci le infinite sfumature di un paese e di chi l’ha vissuto e lo vive.

La ricerca degli oggetti è la ricostruzione di un affresco del paese, il dare nuovo colore a un realismo surreale, a tratti ironico, a una sinopia sbiadita dal tempo. Ma al tempo stesso le immagini assumono un significato più ampio, divenendo un affresco corale della vita del nostro tempo.

Dentro le case è per l’autrice come un atto dovuto, un gesto di riconoscenza verso l’ambiente che l’ha vista crescere. Scorre davanti a noi la vita del paese vista con gli occhi di chi è abituato a esercitare quotidianamente il suo sguardo e sa penetrare nelle pieghe del tessuto sociale. Uscite come dalla caverna di Alì Babà queste fotografie, più che una cronaca di eventi, sono un’indagine antropologica, un saggio sociologico, un libro che ha i suoi personaggi, quelli vivi e quelli scomparsi.

Sembrerebbe a questo punto di trovarsi nuovamente di fronte alla “finestra aperta sul mondo”. Scampoli fotografici di realtà che ci vengono presentati nella loro caoticità.

E anche se nel reportage permane inevitabilmente una certa dose di casualità, questa viene per così dire controllata dal fatto che tra i molteplici scatti Giulia ne sceglie uno, e solitamente l’emblematicità (o il luogo comune) si coniuga con la buona forma.

La presenza dell’autrice è velata, ridimensionata dalla priorità del soggetto, dell’evento da documentare. Tranches de vie riprodotte nell’immagine. Quasi a nascondere la volontà compositiva dell’autrice che non esita, all’occorrenza, ad utilizzare immagini mosse o sfuocate, purché queste evochino l’esistenza di cui sono la proiezione.

Dentro le case sono fotografie intese come traccia dell’esistere, a documentare oggetti un tempo di uso comune dentro le case. Quello che di loro è rimasto. Perché le cose parlano e raccontano, col loro muto linguaggio, quello che le parole non sanno più dire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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